19 MAGGIO 1478: LA BATTAGLIA DI MACOMER. LA FINE DELLA INDIPENDENZA DELLA SARDEGNA. | di Gianfranco Congiu

Domani  19 maggio ricorre il 541° anniversario della Battaglia di Macomer.

“… Fu strage da entrambe le parti e ovunque effusione di sangue: in questo frangente furono proprio i Sardi a dare, da par loro, prova di grande valore in battaglia. Tuonarono terrificanti le urla dei combattenti, volarono saette e sassi, furono scagliate torce infuocate e palle di piombo; accecati ormai dal furore bellico, non si curavano neanche più di scegliere il proprio bersaglio: tiravano in aria, provocando nel cielo una violenta tempesta di dardi che poi precipitavano a pioggia, e ne cadeva una tale miriade che la polvere sollevata da terra a un certo punto oscurò completamente la scena, proprio come se su quella battaglia fossero calate le tenebre; neppure i soldati chiusi nell’ammorsamento nemico si astenevano dall’usare le armi: con la lotta e col sangue tentavano disperatamente d’aprirsi un varco. Scudi in frantumi, corazze ed elmi passati dalle spade, petti trafitti, volti e membra coperti di sangue, mani e braccia amputate; si può dire, nessuno cadde in battaglia senza aver prima ferito di spada o aver ucciso qualcuno. E così, in un sol giorno, i Sardi furono quasi sterminati dagli stessi Sardi: fra loro non vi era nessuno che non avesse la spada grondante sangue …” (così  Proto Arca Sardo descriveva nel 1592 lo scontro tra le truppe di Leonardo Alagon e il viceré  Carroz).

(In alto la più antica rappresentazione del Castello di Macomer, teatro dello scontro, nella Sardiniae brevis historia et descrptio, di S. Arquer del 1550)

 

19 maggio 1478:Una data infausta dell’intera storia della Sardegna che arriva  settan’anni esatti dalla Battaglia di Sanluri  (30 giugno 1409) e dopo quella  di Uras  (14 aprile 1470) e quindi al culmine di un periodo  che gli storici  definiscono come “il periodo che segnò la fine della indipendenza dei Sardi e della Sardegna”.

La potenza evocativa di quelle date è tale che Francesco Casula le accosta, quanto alla intensità e brutalità degli eventi cui si ricollegano,  al  238 a.C. (data che segnò l’inizio della devastante dominazione romana); al 1297 d.C. (data della Bolla di Bonifacio VIII con la quale  infeudò Giacomo II d’Aragona  nel regno di Sardegna e Corsica – arbitrariamente inventato invitandolo ad occupare militarmente le due isole); al 1820 (data di promulgazione degli editti delle chiudende che decretarono la scomparsa del millenario uso comunitario delle terre da parte del popolo in un turbinio di violenze, soprusi e sopraffazioni); al 1847 (data delle “fusione perfetta” che sancì la fine del Parlamento sardo, gli Stamenti   e con essi tutto l’ordinamento giuridico e burocratico sviluppatosi sin dal 1355).

Ma cosa perse esattamente la Sardegna con la Battaglia di Macomer e perché fu così importante per il destino di questa terra?

Facciamo un passo indietro.

Nel VII secolo d.C. la Sardegna era sotto dominio romano-bizantino e faceva parte della Prefettura d’Africa con capitale Cartagine.

Quando tra il 668 e il 717 d.C.  gli arabi assediarono per ben tre volte Costantinopoli,  tutte le forze romane vennero richiamate verso il cuore dell’impero, abbandonando al loro destino le province periferiche,  come la Sardegna, che da quel momento dovranno  cavarsela  da sole.

Nel 698 Cartagine cadde in mano araba e nel 827 i musulmani invasero la Sicilia, tagliando fuori del tutto la Sardegna dai contatti con Costantinopoli.

I governatori dell’isola in quel periodo erano due: lo iudex provinciae, che aveva incarichi civili e risiedeva a Calaris, e un dux con  potere militare di stanza a Forum Traiani (l’attuale Fordongianus), presidio dal quale si controllavano le irrequiete popolazioni dell’interno, mai completamente soggiogate  e ancora profondamente pagane in un mondo che, invece,  si convertiva al Cristianesimo.

A causa delle incursioni arabe e dal sempre maggiore isolamento rispetto al potere centrale (Costantinopoli)  le due cariche vennero via via unificate, la città-fortezza di Forum Traiani abbandonata e le truppe e la flotta superstiti vennero concentrate a Calaris, gestita da uno iudex provinciae che assumeva sempre più i poteri del suo signore nominale, il basileus di Costantinopoli.

 

I contatti con la corte romano-bizantina erano sempre più radi sino a sparire completamente e  questa peculiare condizione di isolamento tenne lontana l’isola dal sistema feudale, ma anche dall’evoluzione dello stesso Stato bizantino dei secoli successivi, cristallizzando un unicum nel panorama medievale europeo.

Per prima cosa in Sardegna rimase una concezione romana del diritto, cosa che permise ai giudicati – i quattro regni in cui si divise l’isola nei secoli seguenti – di essere più simili al defunto Stato romano che ai regni del continente, legati alla cavalleria e al feudalesimo.

Un sostanziale differenza con il sistema feudale risiedeva nella netta separazione tra la “cosa pubblica” e i patrimoni privati: i feudatari francesi, tedeschi o italiani passavano ai loro figli come fosse proprietà personale i castelli e le terre, indebolendo il potere del Re.

Nella Sardegna giudicale, invece,  vigeva la distinzione tra il patrimonio pubblico (detto de rennu) e quello privato (detto de pegugiare).

Questi i prodromi della Sardegna giudicale  che diramandosi dallo  iudex provinciae di Calaris, forse per proteggere meglio  l’intera isola dalle continue scorrerie arabe,   si teorizza che abbia nominato altri tre amministratori giudicali ai quattro angoli della Sardegna, in modo da intervenire più rapidamente a rintuzzare gli attacchi musulmani che potevano arrivare dall’Africa, dalla Sicilia e dalla Spagna, ormai tutte in mani nemiche.

Nel corso dei due secoli successivi i giudicati reclameranno  una sempre maggiore indipendenza, fino a creare quattro Stati sovrani (Rennu) spezzettando quindi  l’antica provincia.

Ad ogni modo i sovrani giudicali legarono il loro destino ai potenti latifondisti (retaggio della tarda romanità, detti in sardo donnos majorales, traducibile pressappoco in “grandi signori”), al clero e ad una classe di cavalieri (piccoli proprietari terrieri da non confondere con i cavalieri feudali) detti lieros de cavallu, che prestavano servizio militare come i kaballarioi o gli akrites bizantini.

I grandi signori e la gerarchia ecclesiastica di alto rango formava la Corona de Logu, una sorta di parlamento che ricordava l’antico Senatus di Roma o di Costantinopoli, che eleggeva il sovrano e lo assisteva nelle decisioni più importanti di governo, comprese le dichiarazioni di guerra o la firma della pace, la tassazione e le questioni religiose di una certa importanza.

La cerimonia di investitura del Giudice era detta su collectu. Molto solenne e simbolica, vedeva i maggiori nobili del rennu che si disponevano in circolo (da qui il termine Corona de Logu), con al centro colui che aveva il compito di presiederla.

Questa assemblea definiva le attribuzioni e l’ambito del potere del Giudice, ovvero la sua attività di governo, giuridica e militare (rennare, potestareimperare).

Di grande rilievo era il bannus consensus, una sorta di patto con il popolo,  l’equilibrio di cui il sovrano era il massimo garante. Se questi lo avesse rotto, violando arbitrariamente la fiducia concessa dal popolo (inteso come gli aristocratici, il clero e i rappresentanti delle comunità rurali), avrebbe tradito il fondamento stesso del proprio potere e, perso il consensus, sarebbe stato destituito e legittimamente giustiziato.

Lo Stato giudicale sardo era quindi una monarchia mista elettiva-ereditaria, con un parlamento proprio, una netta divisione tra patrimonio pubblico e privato, oltre che una solida base legislativa e burocratica, espressa da una cancelleria giudicale (detta Camera Scribaniae) molto avanti per i tempi  e retta da funzionari detti majores, comandati da un majore de camera, figura simile ai maggiordomi carolingi o forse al megas logothetes bizantino.

La corte dei sovrani dell’isola era spesso itinerante, ma aveva delle città-fortezze privilegiate, che si potrebbero definire quasi come delle capitali: Pluminos o Santa Igia nel Giudicato di Calari , Torres e poi Ardara per il Giudicato di Torres, Tharros e in seguito Oristano per il Giudicato d’Arborea e infine Civita per la Gallura.

Gli Stati giudicali erano divisi in curadorias, distretti amministrativi di varia estensione, formati da centri urbani e ville rurali, dipendenti da un capoluogo dove aveva sede il curadore. Questi, coadiuvato soprattutto in materia giudiziaria da jurados e da un consiglio detto Corona de Curadoria, rappresentava localmente l’autorità giudicale e curava il patrimonio pubblico della Corona. Il curadore era di nomina regia o comunque approvato dal Giudice. Egli aveva un mandato a tempo determinato con autorità sull’esazione fiscale, sull’amministrazione della giustizia e sull’arruolamento dell’esercito.

Le curadorias erano anche dei veri e propri distretti elettorali: gli uomini liberi si riunivano periodicamente in assemblea al fine di eleggere il proprio rappresentante presso la Corona de Logu. Questo sistema amministrativo era molto efficace per la gestione del territorio e venne meno solo con l’imposizione del sistema feudale da parte dei conquistatori aragonesi nel XV secolo.

Questo microcosmo storico rimase intatto fino alla fine delle scorrerie arabe in occidente, nell’XI secolo.

I giudici sardi, spesso alleati tra loro, preservarono i loro domini e intrapresero, assieme alle neonate repubbliche marinare italiane, guerre e incursioni vittoriose nelle Baleari, in Sicilia e Africa. Questo creò legami politici, economici e infine familiari con i pisani e i genovesi, che iniziarono a porre le basi della loro influenza nei centri di potere dell’isola.

Lentamente, ma in modo sempre più profondo, queste orgogliose e potenti città si fecero garantire sempre più privilegi nelle corti di Torres, Gallura, Arborea e Calari. Molti nobili toscani e liguri si insediarono in Sardegna, spesso invitati dagli incauti judikes per colonizzare terre e valli spopolate dalle incursioni arabe. Famiglie come i Doria, i Malaspina, i Visconti, i Donoratico, innalzarono castelli e divennero delle quinte colonne della madrepatria in terra sarda, minando il potere giudicale alle sue fondamenta.

Tra il XII e il XIII secolo ben tre su quattro giudicati (Calari, Torres e Gallura) caddero in mani straniere, spezzettati tra pisani e genovesi, mentre solo l’Arborea rimase forte e indipendente, riuscendo a cacciare dai suoi confini i pericolosi infiltrati e combattendo guerre per impossessarsi di castelli strategici appartenuti un tempo ai vecchi Stati confinanti.

Questa formidabile e particolare struttura giuridico-ordinamentale costituiva l’intelaiatura  di uno Stato/Nazione sovrano e indipendente, avente  piena ed esclusiva giurisdizione sui tutti i territori dell’isola, capace di produrre atti legislativi monumentali straordinariamente all’avanguardia come la Carta de Logu, promulgata da Mariano IV (1317-1375) ma aggiornata e rivistata da Eleonora d’Arborea.

La Carta de Logu segna una tappa storica anche livello europeo, fondamentale verso la piena attuazione di uno “stato di diritto” secondo una visione estremamente innovativa per l’epoca in cui tutti sono tenuti all’osservanza e al rispetto delle norme giuridiche, grazie alla quale a tutti i cittadini veniva data la possibilità di conoscere le norme giuridiche e le relative conseguenze.

La sua rilevanza è confermata dalla straordinaria longevità: la Carta de Logu sopravvisse alla fine del regno arborense e dei giudicati sardi,  rimase in vigore persino in epoca spagnola e sabauda fino all’emanazione del Codice di Carlo Felice nell’aprile 1827.

Il suo valore è rimasto inalterato, anche se in parte ignorato, nel corso dei secoli. In essa l’attualità è pressante come la tutela e la posizione della donna, assolutamente protagonista nella società di allora; alla difesa del territorio e delle sue risorse; al problema centrale dell’usura; all’esigenza di certezza nei rapporti sociali, tutti temi più volte affrontati nella Carta de Logu ma di straordinaria attualità anche ai nostri giorni.

Era, pertanto, intuibile che in un simile contesto giuridico, ordinamentale e sociale indipendente, autonomo rispetto a qualunque altra ingerenza esterna e quindi originario, avente giurisdizione da oltre 500 anni sui popoli stanziati in quello che a tutti gli effetti era una Nazione/Stato compiuta è riconosciuta, “lo sbarco” in Sardegna degli invasori iberici (voluto e favorito da Bonifacio VIII con la fittizia e arbitraria costituzione de regno di Sardegna e Corsica, 1297 d.C.)  costituiva, per i regnanti giudicali, una vero e proprio tentativo di annessione di uno Stato da parte di un altro Stato.

In effetti il conflitto che scaturì tra i Sardi e la corona catalano aragonese non  ha rappresentato una mera attività resistenziale da parte delle popolazioni autoctone, ma un vero e proprio “scontro imperialista”  tra due Stati, tra due diverse  entità giuridiche statuali, entrambe autonome e indipendenti culminato proprio nella battaglia di Macomer che a ben vedere ha rappresentato la perdita di una indipendenza e di una legittimazione per la Sardegna che durava da cinque secoli.

Quella di Macomer, quindi, non fu una battaglia come le altre ma l’epilogo cruento  di un conflitto per il dominio di uno Stato su un altro Stato,   la fine quindi di un periodo di indipendenza per la Sardegna e di libertà per il Sardi che segnò e condiziono’ il corso della Storia.

 

Faccio mie le parole di Francesco Casula che in occasione della rievocazione della Battaglia di Sanluri scrisse: “ Ci sarebbe, a fronte di tutto ciò, da chiedersi cosa ci sia da “celebrare” in occasione della ricorrenza del 30 Giugno prossimo. Da celebrare niente. Molto invece da rievocare per conoscere la nostra storia: nelle sconfitte come nelle vittorie. Per conoscere il nostro passato, per troppo tempo sepolto, nascosto e rimosso: dissotterrandolo. Perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza. 

 

 

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