Incoscienza autonomista. Perché è sbagliato dedicare Sa Die a Giorgio Asproni.

di Franciscu Sedda

1. Un italiano vero, anzi, verissimo
“Io voglio vivere e morire italiano”.
Così si esprimeva Giorgio Asproni nel 1852 in una lettera indirizzata da Napoli al suo amico, il canonico Giovanni Spano. Del resto fin dagli esordi del suo impegno politico e del suo ingresso nel Parlamento Subalpino nel 1848 i suoi intenti erano chiari, anzi, adamantini:

Mio principio massimo e primordiale è l’Unità dell’Italia a qualunque prezzo. Indi il convocamento sollecito della Costituente per stabilire un Regno vasto sopra basi le più democratiche, e restituire all’antica dignità la regina del Mondo (8 luglio 1848).

Che cosa significasse fare l’Unità dell’Italia “a qualunque prezzo” ce lo fa capire – più ancora che la sua partecipazione alla spedizione dei mille al seguito di Garibaldi – il fatto che davanti alla possibilità di un’unità monarchica e centralistica lui, massone che si professava repubblicano e federalista, era prontissimo a mettere da parte i suoi ideali e ad attaccare chi pure stimava, come il federalista Giuseppe Ferrari:

Giuseppe Ferrari è sempre col suo sistema federale; ed io dico che forse avrà ragione. Ma stupisco che egli (…) che insegna le forme di governo non essere per i popoli che arma secondo la necessità dei tempi, non veda oggi che il supremo bisogno della Nazione italiana è l’unità politica (27 gennaio 1863).

Nel luglio del 1870, pur ribadendo la sua fede repubblicana davanti ai monarchici che lo incalzavano a cambiare idea, con retorica risorgimentale li incitava: “Osate con gagliarda risoluzione. Completando l’unità della Patria [prendendo Roma] ne avrete potenza e fama immortale”. A chi gli faceva notare la contraddizione di queste sue prese di posizione rispetto ai suoi sbandierati ideali, ribadiva: “Io capisco che sono italiano e da italiano dobbiamo pensare, discorrere e agire”.
Insomma, pur di fare l’Italia era disposto a sacrificare tutto. Repubblicanismo. Federalismo. Democrazia. Figuriamoci se non poteva sacrificare – come vedremo – ciò che era giusto per la Sardegna!
Il 19 novembre 1874, poco meno di un anno prima di morire, sul giornale napoletano Il Pungolo raccontava con orgoglio di come una delle figure politiche che più aveva contestato e combattuto lo chiamasse, per dileggiare la sua cieca fede, L’Italianissimo. Si trattava di chi l’Italia l’aveva fatta in concreto: Camillo Benso, Conte di Cavour.
Ci sarebbe davvero ben poco da aggiungere alla storia di questo sardo che spende la vita per farsi più italiano degli italiani e conclude la sua esistenza a Roma – dal 1871 la tanto agognata Capitale d’Italia – dove scelse di vivere – dopo aver risieduto a Genova, Torino, Palermo, Napoli, Firenze, Milano – dove morì nel 1876. Dove tuttora giace al Verano. Dove è giusto lasciarlo.

2. Un geniale piano: fuggire dalla padella per gettarsi nella brace
Se non fosse che, come si dice proprio a Roma, viene continuamente “ricicciato” e proposto come uno dei padri dell’autonomismo sardo.
Il che andrebbe anche bene, dato che dimostra nel modo più semplice che cosa sia l’autonomismo nostrano: il modo dei sardi di essere italiani, il modo dei sardi di sacrificarsi per l’Italia.
È certo infatti che ogni vero autonomista sardo sarebbe pronto a sottoscrivere le parole che Asproni vergava nel 1854, in quello che viene considerato il suo testamento politico (benché dovesse vivere e fare il deputato altri vent’anni!): riferendosi alla Sardegna e alla Sicilia diceva infatti che queste avrebbero dovuto avere “un governo proprio con amministrazione propria e indipendente, salvo sempre il vincolo alla madre Italia”. Che è appunto la quintessenza dell’autonomismo nostrano, dalla perdita dell’indipendenza medievale (e della memoria) in poi: “governarci da noi per fare quello che serve a voi”. Del resto quale patriottismo più sublime che sollevare la Madre-Patria da ogni preoccupazione?! Qual cosa più amorevole che sculacciarsi da soli, ma per suo conto, invece che gravarla di questo fardello?! Non sia mai infatti che prendendo colpi ci si accorga che chi ti picchia non è né patria, né madre, né matrigna e nemmeno dantesca “donna di bordello” ma un’estranea che non ti ama e non ha alcun intesse a prendersi cura di te. Anzi…
Ora però, anche considerato il tradizionale (ma mai sufficiente a quanto pare) sardomasochismo, proporre la figura di Asproni proprio nell’ambito delle celebrazioni de Sa Die de sa Sardigna appare un po’ troppo. Non che negli anni le celebrazioni di quella che dovrebbe essere la “festa del popolo sardo” abbiano brillato per coerenza con l’idea di un momento dedicato alla sovranità e alla coscienza nazionale dei sardi. Qui tuttavia si raggiunge una nuova vetta di malizia. O di in-coscienza. Quasi si stesse tornando all’epoca in cui i sardi amavano ingannarsi totalmente sul proprio passato.
Per capire dove stia l’incosciente malizia del celebrare Asproni piuttosto che dimenticarlo bisogna ricordare che il desiderio d’italianità del bittese (sì, proveniva dai luoghi della “vera sardità”, del “sangue sardo”) si basava sul viscerale odio anti-piemontese. Fare l’Italia per fuggire dal giogo del Piemonte. Questo il geniale piano di Asproni e della sua generazione: scappare dalla padella per gettarsi (e gettarci) con entusiasmo nella brace. Senza peraltro considerare che quanto si voleva fare con l’Italia era copia e rilancio di quanto già si era provato a fare con il Piemonte: fondersi volontariamente, sperando di guadagnare così un po’ di riconoscimento e di attenzioni, magari persino un po’ di giustizia.
È proprio vero che dalla storia non si impara. A proporre questa entusiastica fusione nell’italianità era infatti colui che nel 1851 si lamentava a proposito della perfetta fusione col Piemonte, quando la classe dirigente sarda aveva rinunciato alle prerogative sovrane (per quanto ormai puramente formali) della Sardegna in quanto Regno:

La fusione le prometteva un trattamento non da colonia (…) ma tutto andò in dileguo (…) La fusione della Sardegna è stata una conquista pel Piemonte, una conquista pacifica, non fatta colle armi, ma coll’entusiasmo, nel cui fervore non si badò punto allora che forse il pensiero della fusione poteva essere un pensiero non indigeno, ma venuto d’oltremare, e propagato ad arte (Gazzetta Popolare, 16 settembre 1851).

All’Asproni non sorgeva il dubbio che il nuovo entusiasmo fusionista potesse essere, in grande, ciò che la prima fusione era stata in piccolo. No, il suo problema era anzi quello di fondersi meglio: “la fusione è un’amara ironia (…) noi intendevamo per fusione qualcosa di meglio che una fusione unilaterale” (Gazzetta Popolare, 23 settembre 1851).
Insomma, a fusione, fusione e mezzo. Anzi, con-fusione.

3. Tragicomici misteri
Vale la pena scrutare meglio il (non)senso di questo modo di agire. Perché le confusioni di Asproni ci possono dire molto delle nostre presenti contraddizioni.
Cercando di spiegare il suo repubblicanesimo italiano Asproni si richiamava infatti alla sua esperienza di sardo nato e cresciuto nella Sardegna della prima metà dell’Ottocento: “bisognerebbe comprendere cosa fu l’essere nato nell’Isola di Sardegna sotto la signoria dei Piemontesi”, scrive il primo luglio del 1870.
Come dire che se uno subisce umiliazioni e violenze da qualcuno non prova semplicemente a liberarsene, no, prima prova a redimerlo fondendocisi insieme – dunque ammettendo che in qualche modo le angherie subite erano giuste, che c’era qualcosa da farsi perdonare – poi, visto il fallimento del tentativo, prova ad allontanare lo spettro del carnefice facendo intervenire tutta la famiglia del carnefice.
Come potesse in tutta onestà una classe dirigente che prima aveva rinnegato e tradito la Sarda Rivoluzione, poi aveva accolto in Sardegna il Re Sabaudo con atti di piaggeria indicibile, poi si era lanciata nella perfetta fusione col Piemonte, poi dopo pochi mesi già si lamentava (ma senza tirarne alcuna conseguenza) che la fusione era stata il gesto di una “notte di follia”, ecco, come poteva pensare questa inconsistente classe dirigente (che già chiamarla così gli fa un favore) che i sardi avrebbero potuto contare qualcosa nello Stato italiano resta un mistero – si fa per dire, dato che si tratta di un mistero buffo, anzi, tragicomico. La storia della Sardegna moderna, la Sardegna che emerge dal trauma della repressione della Sarda Rivoluzione, è infatti l’inveterato ed insistito tentativo da parte delle élite locali di usare sofferenza, sacrifici e voti del popolo sardo per scalare – a beneficio personale, di parte o di camarilla – le vette della politica sabauda prima e italiana poi, fino ad ergersi a leader, presidenti, padri. In una sempre più chiara divaricazione fra la crescita di potere di alcuni politici sardi in Italia e l’inutilità e ininfluenza di questa crescita di potere rispetto alle sofferenze e alle attese di prosperità e dignità del popolo sardo.
Insomma, il lettore sardo, ripercorrendo velocemente il tragitto che Asproni inaugura dovrebbe a questo punto aver ben chiaro che avercela con “i Piemontesi” (e oggi con il governo italiano di turno) non significa per questo stare dalla parte dei sardi e men che meno dell’indipendenza. Proprio come, di converso, tifare per la Juventus non significa (lo dice un tifoso del Cagliari) smettere di essere sardi o essere necessariamente contro l’indipendenza della Sardegna. Certi umori non spingono verso la direzione che si ama immaginare e certi stereotipi sono illusorie consolazioni. O si cambiano gli umori e si smontano gli stereotipi che dominano il presente o si rimane come belve in gabbia o ombre dentro una stanza degli specchi. Incattivi o instupiditi. Inutilmente.
La seconda cosa da notare è che pur odiando i Piemontesi, e la loro Monarchia, Asproni non si vota ad un repubblicanesimo sardo: detto ancor meglio, non si fa seguace dell’Angioy e degli altri patrioti sardi che in modo più o meno aperto avevano propugnato la Sarda Rivoluzione nel nome dell’abbattimento del feudalismo e della creazione di una Repubblica di Sardegna. Anzi, è probabile che, aprendo una tradizione che poi verrà raccolta in ambiente sassarese e protratta fino alla metà del Novecento, Asproni favorisca con il suo operato una rilettura “italiana” di Angioy e della Sarda Rivoluzione, come se questa fosse un pezzo – un po’ strano e un po’ in anticipo – del Risorgimento italiano. Perché questa confusione? Probabilmente a causa della perdita della memoria nazionale e sardo-repubblicana degli eventi rivoluzionari incarnata dal voltafaccia di gran parte della classe dirigente sarda nel momento decisivo della rivoluzione e nutrita dal clima di terrore imposto dalla restaurazione di cui sarà vittima la Sardegna intera e in particolare gli esponenti del movimento rivoluzionario.
Insomma, della Sarda Rivoluzione si può salvare unicamente l’aspetto anti-piemontese (e mai altro!), molto spesso congiunto con l’idea di un’azione contro “i funzionari piemontesi” ma fatta per il bene del Sovrano sabaudo. Ogni aspetto nazionale, ogni aspetto indipendentista, viene cancellato.
Eccoci al punto, a cui prestare massima attenzione. In questo tipo di azione politica rimane, viene persino enfatizzato, il dato “coloniale” contro cui protestare ma viene a mancare il dato positivo, il dato proprio, da affermare. Proprio come molti oggi in Sardegna protestano contro l’azione dello Stato italiano (incarnato dal governo di turno) ma non hanno nessuna volontà di mettere in dubbio l’appartenenza (e la conseguente fedeltà) alla nazione italiana. E così condannano la loro stessa protesta a risultati magri se non nulli o controproducenti.

4. In mano nostra o inventarsi altro?
Ecco dunque che l’Ottocento di cui Asproni è grande sintesi è tutto un pullulare di rimpianti e sfoghi per la Sardegna trattata come “colonia” – “Si annientava il Regno, e si creava una colonia”, dirà con formula icastica Musio nel 1874 – ma è anche il periodo di un grande vuoto nel trasformare questo stato di umiliazione coloniale nel fondamento, quantomeno emotivo, di un diritto dei sardi e della Sardegna alla libertà politica. Così si spiega il senso di alcuni dei passaggi (a dire il vero isolati) in cui Asproni pare avvicinarsi a idee insurrezionaliste. Quando il 25 luglio 1855 parla nel suo diario della necessità di un Vespro Sardo è evidente infatti che egli non ha né l’idea né la volontà di un esito positivo – una Repubblica di Sardegna – ma soltanto di far valere il sacrificio dei sardi per ottenere da chi governa una magnanimità che lui, e la classe dirigente di cui fa parte, non riesce ad ottenere:

Sotto il dominio piemontese [la Sardegna] non prospererà mai, a meno che non abbia potenza, e costante volontà di eleggere deputati esperti e capaci di abnegazione – opera pressoché impossibile perché mancano gli uomini in tanto avvilimento del popolo intero; e di organizzare una resistenza legale. L’altro rimedio è feroce, ma necessario e più probabile; e questo sarebbe un Vespro Sardo. Anche quando l’isola venisse soggiogata, e si facesse dal governo atroce vendetta, resterebbe sempre la memoria e l’esempio per insegnare agli spietati reggitori ad essere più giusti e più umani verso la Sardegna (25 luglio 1855).

Bisogna avere ben chiaro che, consciamente o meno, per Asproni è impossibile per i sardi conquistare qualcosa di positivo che sia sardo.
Per intenderci si leggano queste parole pronunciate quando si fanno sempre più insistenti le voci di una cessione della Sardegna alla Francia:

Per rimanere sotto la barbara dominazione dei Piemontesi, la Sardegna sarà fortunata di essere aggregata alla Francia: io la vorrei sempre italiana, quale è la natura sua. Dopo l’Italia, preferirei che venisse in mano agli Americani del Nord. Coi Piemontesi i Sardi saranno sempre iloti [schiavi (n.n.)] (16 dicembre 1855).

Per Asproni la Sardegna non può stare a sé. Può solo scegliersi un dominatore più o meno buono. E in ogni caso, dovunque andrà a finire, essa è “italiana”. Per questo non può esistere per davvero un Vespro Sardo. Per questo una insurrezione può solo servire a spaventare un pochino il potere di turno e rivendicare dal dominatore un (illusorio) miglior trattamento. Una libertà (se così si vuole avere l’impudenza di chiamarla) sotto il nome e la protezione altrui. Una liberazione dei sardi e per i sardi, una libertà in mano ai sardi, è semplicemente impensabile.
Come ha scritto Martin Clark, in tutto il dibattito sulle ipotesi di cessione della Sardegna alla Francia e all’Inghilterra che scuotono gli anni Cinquanta dell’Ottocento – in cui Asproni chiede a Mazzini di intervenire per dare alla Sardegna patenti d’italianità – ciò che risalta nel discorso della classe dirigente sarda (ma purtroppo viene da pensare che il popolo, sfiancato, non avesse una visione alternativa) è che a nessuno viene seriamente in mente che Piemonte, Italia, Francia, Inghilterra siano pur sempre domini esterni, stranieri, e che la barattabilità della Sardegna indichi esattamente il luogo in cui un moto di dignità dovrebbe far sorgere un movimento per l’indipendenza nazionale.
Asproni ci arriva una volta sola e con la freddezza di un ragionamento astratto ed economicista: il 5 maggio del 1860 annota nel suo Diario che “La Sardegna potrebbe essere uno stato neutrale, costituito a popolo, senza dogane e aperto al commercio e alla industria del mondo”. Per il suo percorso politico-esistenziale è già tanto: per colui che – fra le altre cose già notate – ha fondato o sta fondando giornali come Lo stendardo italiano (1859) e L’emancipazione italiana – l’eco delle isole (1860), anche la sola ammissione estemporanea di un orizzonte statuale per la Sardegna tradisce la gravità delle condizioni a cui la Sardegna e i sardi erano sottoposti. Ma non c’è nessuna reale volontà di farsi carico di ciò che pure sarebbe giusto e necessario.
E questo perché la sconfitta di quella Sarda Rivoluzione che si celebra con Sa Die, apre esattamente la via alla formazione di un gigantesco moto di subalternità e ad un ancor più grande complesso d’inferiorità. Da cui, pensano le élite sarde, si esce solo integrandosi ad altro, inventandosi di essere qualcos’altro: la perfetta fusione col Piemonte prima, la perfettissima unità italiana dopo.
La seconda fusione ha tuttavia un’aggravante: che alla formale perdita di sovranità sancita nel 1848 il moto che porta al 1861 vuole aggiungere la perdita di qualunque distinzione culturale. È un volontario e volontaristico “camaleontismo” identitario. Un’invenzione d’italianità che arriverà a vette di perversione con le famigerate Carte d’Arborea (mai nome fu più sacrilego) in cui le élite sarde si inventano un pedigree italiano provando a strappare alla Sicilia il primato storico nella scrittura in lingua italiana.
Un rifiuto di sé, e una volontà di farsi altro, che arrivava a forme di perversione di cui la storia non può che farsi beffe come è giusto davanti a dei pagliacci che non hanno nemmeno la coscienza di pagliacciare, e per nutrire la propria disgraziata incoscienza provano a trascinare con sé anche altri popoli:

(…) non vi ha cittadino nell’isola che non sappia adoperare, sopra al dialetto [il sardo], la lingua madre [l’italiano], o che almeno non l’intenda pienamente; negare quest’italianità sarebbe un’assurdità, sarebbe come chiamare “non inglesi quelli della Scozia” (Giovanni Siotto-Pintor, Intorno alle voci di cessione dell’isola. Considerazioni, dichiarazioni, protesta dei popoli sardi, Vallardi, Milano, 1861).

Viene proprio da ridere. E da pensare che una risata seppellirà queste follie. Eppure, bisogna ammetterlo, leggerle fa male, fa quasi vergognare. Per questo, prima di poter ridere di una risata davvero liberatoria, bisogna sfogliarlo per intero questo catalogo delle perversioni; questo catalogo in cui la vittima infelice, oggetto di assedi e fucilazioni – come lo erano, ciascuna a proprio modo, la Sardegna e la Sicilia davanti al nascente Stato italiano – ha il torto di essere peso, disturbo e cancrena per il carnefice; questo catalogo in cui una storia di violenza può diventare nel giro di poche righe un’italianissima unione felice:

Le isole hanno carattere proprio, ed indole propria. (…) finché saranno amministrate da proconsoli, col telegrafo, finché adopereranno i bottoni di fuoco, lo stato d’assedio, le fucilazioni senza norma, i giudizi sul tamburo, saranno infelici, e saranno un disturbo, una cangrena per lo Stato. Per legge eterna ed immutabile le isole sono e saranno, quali natura le fece, sui generis. Per sangue, per stirpe, per comunanza d’interessi sono e saranno italianissime (…) Ma questa felice unione non si può consolidare né cementare con le violenze e con società leonine (…)(Giorgio Asproni ai suoi elettori del Collegio di Nuoro, Napoli, 1867).

Neanche nelle peggiori fiction neo-risorgimentali della contemporaneità il copione è così mal scritto e l’unione felice fondata su questa italianità di sangue, stirpe e interessi una fake-news così evidente, banale ed insopportabile.
Che dire? Magari sarebbero bastate parole come queste: “l’istinto dell’indipendenza contro ogni straniera pressione e influenza richiedeva una compatta esistenza”. Peccato che queste parole d’indipendenza, queste parole rivolte a costituire una nazione, Asproni nel 1862 le stesse (ancora una volta) dedicando all’Italia e non alla martoriata Sardegna.

4. Tempo di coscienza, tempo di rispetto
Sul finire dell’Ottocento, nel centenario dell’ingresso di Giovanni Maria Angioy a Sassari, i democratici e repubblicani sassaresi lo celebrarono come uno dei padri del Risorgimento italiano. Niente poteva essere più lontano dal vero e dal rendere giustizia non solo ad Angioy ma a tutta la Sarda Rivoluzione con la sua idea di “libertà e giustizia per il Popolo e Sarda Nazione”.
Oggi, accostare l’immagine di Giorgio Asproni a quella di Sa Die significa, coscientemente o meno, maliziosamente o meno, rischiare di riportarci indietro di cent’anni; significa rischiare di riportare e ridurre la Sarda Rivoluzione ad un moto “anti-piemontese” e “pro-italiano”. Un moto autonomista, appunto. Invece che un moto nazionale e indipendentista, per quanto travagliato, contraddittorio, incompleto, come sono tutte le rivoluzioni Tanto più se segnate dalla sconfitta violenta. E dunque dall’impossibilità di dispiegarsi e raccontarsi compiutamente.
Il rischio, ancora una volta, è quello di confondere la nostra memoria nazionale, di cancellare la stessa possibilità d’esistenza di una nostra storia nazionale. E quanto sia alto il prezzo di questa cancellazione traspare proprio (e persino) dalle parole che lo stesso Asproni, scrivendo stavolta da Torino, rivolgeva ancora una volta a Giovanni Spano:

I popoli hanno come le persone i loro periodi di gloria, di consolazione, di prosperità, e quelli di desolazione di dolore, e di dispersione e di avvilimento. Noi toccammo l’unico fondo delle miserie umane. Prima le barbare invasioni, poi la conquista straniera che spense sin la memoria degli antenati e ci sottopose al giogo feudale; e finalmente la Signoria dei Piemontesi che fu il suggello di ogni calamità immaginabile (13 febbraio 1863).

L’incapacità di ricordare gli antenati, di nominarli!, è il viatico per un doloroso risentimento che acceca e svia. Asproni non riesce a nominare il periodo dei Giudicati, della lotta degli Arborea contro i catalano-aragonesi per l’unificazione e la liberazione della Sardegna. La storia della Sardegna gli appare come un’oscura vicenda. Davanti a così tante miserie umane gli viene facile darsi motivo per aggrapparsi alla bellezza di quella “divina Italia” che evoca all’inizio della stessa lettera.
Ora, l’Italia resterà bella anche senza la Sardegna e i sacrifici dei sardi per essa. Il punto è perché dover far brutta, oscura, confusa la storia di Sardegna, piuttosto che renderle la bellezza dovuta. A quale pro? E soprattutto, perché questa storia farla incompleta e falsa? Perché costellarla di connessioni scorrette, maliziose, svianti?
La verità è che dedicare Sa Die a Giorgio Asproni, come se egli sia stato un continuatore di quegli eventi, come se la sua azione sia stata traduzione e concretizzazione di quelle aspirazioni rivoluzionarie, è un attentato alla nostra già precaria coscienza nazionale.
Perché la verità è che vite come quella di Asproni sono esattamente il frutto di quel tradimento e di quella violenza che bloccarono il moto di emancipazione nazionale dei sardi; la piena affermazione della nostra sovranità nazionale nel movimentato contesto europeo dell’epoca; il tentativo di dare risposte ad esigenze sociali e popolari diffuse secondo una nostra articolazione dei poteri, un nostro originale modo di concepire diritti e doveri, libertà e responsabilità.
La verità è che se la Sarda Rivoluzione avesse vinto Giorgio Asproni non sarebbe esistito. Giorgio Asproni, s’intende, in quanto esperienza personale e tuttavia emblematica del sardo che vuol farsi italiano o ancor più in generale del sardo che, di tempo in tempo, di dominazione in dominazione, vuole fuggire dalla Sardegna – ma chiedendo e sfruttando il consenso dei sardi – per diventare il fondatore/salvatore della patria (acquisita) di turno. Pur di farsi accettare, pur di evitare di fare i conti con le ferite che la storia ha imposto alla Nazione sarda, pur di non farsi carico dei sacrifici che l’emancipazione nazionale della Sardegna necessariamente comporta, ieri come oggi. Come testimoniano i tanti uomini e donne di Sardegna che pagarono con la vita la partecipazione alla Sarda Rivoluzione che Sa Die è nata per celebrare.
Dunque, cari autonomisti sardi, festeggiatelo pure Asproni. Ma il 2 giugno. O in qualche altro giorno in cui si festeggia l’Italia. Oppure prendetelo ad occasione per fare i conti una volta tanto con la vostra coscienza nutrita di uno sterile miscuglio di orgoglio e integrazione. Ma per carità di patria, non confondetelo, Giorgio Asproni, con chi si è battuto, chi è vissuto e morto, per la libertà della Nazione sarda.

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